Volevo fare l’artista ma…
Autore:
Giacomo Nicolella Maschietti
Per scrivere questo pezzo ho cercato di mettere in fila tutti i luoghi comuni che abitano il settore delle arti visive, per lo meno da quando ho iniziato a lavorarci io, a inizio millennio. La vecchia storia dell’artista bohémienne squattrinato è allo stesso tempo una verità e un errore grossolano nella storia dell’arte. Non è proprio vero che se vuoi fare l’artista dovrai finire le tue primavere bevendo assenzio sul marciapiede insieme a qualche collega senza nemmeno più i premolari in bocca. Per ogni Van Gogh e Modigliani che hanno trascorso l’intera esistenza senza che venisse riconosciuta non dico la loro arte ma almeno qualche fattura, ci sono altrettanti Picasso e Jeff Koons che se la sono cavata molto bene, forse troppo. Il tempismo di chi ha saputo intercettare non soltanto il proprio bisogno ma anche quello del pubblico e dei collezionisti è un ingrediente che a conti fatti vale tanto quanto l’idea geniale davanti alla tela.
Oggi, nell’era della comunicazione digitale dove tutti hanno (o sarebbe meglio dire “dovrebbero avere”) più opportunità, resta da capire come fare per non restare invisibili.
Un buon portfolio mandato via mail a un centinaio di gallerie di cartello non assicura che l’assistente addetto alla casella postale @info apra il nostro allegato.
Facciamo un esempio extra settore: ogni giorno su Spotify vengono pubblicate 60mila canzoni nuove, ovvero quasi 22 milioni di brani nuovi all’anno. Le ascoltiamo tutte? Ovviamente no. Ci perdiamo qualche capolavoro? Certamente sì.
Ecco allora che questa bulimia comunicativa contemporanea non garantisce, al netto degli introiti delle piattaforme, la tanto auspicata visibilità.
Jeff Koons, foto della mostra "Jeff Koons: Versailles", Versailles Château de Versailles, France, 2008-2009.
Non il dinosauro più forte sopravvive, ma quello con la miglior capacità di adattamento.
Ecco allora che delle buone PR e un personal branding decente diventano elementi insostituibili. E attenzione, vale veramente tutto: può avere successo un artista sovraesposto che pubblica decine di contenuti a settimana come quello che finge di essere morto o che nessuno sa chi sia.
Non esiste una ricetta valida per tutti. Quello che serve è una strategia. A qualcuno andrà in porto, ad altri no, questo è il gioco, non siamo in coda per l’assegno Naspi.
Per le arti visive non ci sono marketplace di cartello così forti come nel mondo della musica, ma la ipersaturazione è palpabile allo stesso modo. Non apriamo nemmeno un attimo il discorso dell’arte digitale, dopo il boom e consequenziale flop degli NFT che ha invaso il web con migliaia (per non dire milioni) di lavori. Non tutti capolavori.
Il fatto è, se sei arrivato a leggere fino a qui con curiosità, che fare l’artista non basta.
Non è mai bastato, parliamoci chiaro, nemmeno all’epoca di Modigliani.
Un artista contemporaneo deve certamente avere dalla sua talento e creatività (parola pericolosa, come diceva Enzo Mari), ma anche altrettanta imprescindibile capacità di comprensione del settore in cui opera.
Se provate a chiedere a Chat GTP, ovvero al pensiero bovino unico che abita il web, perché è difficile diventare un artista, vi risponderà così: “Diventare un artista visivo famoso è difficile per diversi motivi. Prima di tutto, c'è una forte competizione nel mondo dell'arte visiva, con migliaia di artisti talentuosi che cercano di emergere. Inoltre, il successo nell'arte è spesso soggettivo e dipende dai gusti personali del pubblico e dei critici. La visibilità è fondamentale per diventare famosi come artista visivo, e ottenere quella visibilità può essere un processo lungo e impegnativo. Richiede non solo di produrre opere di alta qualità, ma anche di promuovere se stessi in modo efficace attraverso mostre, gallerie d'arte, social media e altre piattaforme”.
La risposta formalmente è corretta, ma se la andiamo ad analizzare è incompleta, per non dire sbagliata. Innanzitutto che il pubblico abbia voce in capitolo è tutto da discutere. I critici e i curatori sì, sono molto potenti. Se ci fate caso, ricordiamo i nomi dei curatori delle ultime Biennali di Venezia, quasi mai quelli degli artisti. E già questo dovrebbe farci riflettere. A seguire: non possiamo credere che le gallerie, business familiari (escludendo le big internazionali) costrette a partecipare alle fiere per vendere opere, siano l'unica e sola via di sopravvivenza per gli artisti. Eppure…
Vi racconto una storia, senza nomi, che non sono in cerca di querele. Anni fa un amico artista era fidanzato con una redattrice di un’importante rivista d’arte internazionale. Lei gli consigliava di proseguire la ricerca, molto definita, concettuale (quello piaceva a lei), e di trovare contatti nelle gallerie alla moda del momento (senza però aiutarlo concretamente per paura di perdere credibilità con il suo, di lavoro). Lui, non troppo convinto, andava in studio tutte le notti e dipingeva, dipingeva.
Poi a causa di un incontro fortuito ha iniziato a mandare opere in un ristorante a New York gestito da italiani, gli avevano chiesto i lavori per arredo, non altro. I quadri pian piano sono piaciuti ai clienti del ristorante e quel pittore oggi ha una bella villa sul lago. Pagata solamente lavorando alle sue tele e vendendole ai clienti di un unico, molto ben piazzato (Upper Est Side), ristorante.
Ora, meglio lui che non deve più bere l’assenzio sui marciapiedi o chi insegue la galleria à la page tutta la vita?
Immagine di copertina: Yayoi Kusama, foto della mostra "In Infinity", Louisiana Museum, Copenhagen, Danimarca, 2016.
Autore
Giacomo Nicolella Maschietti
Giacomo Nicolella Maschietti è un giornalista professionista specializzato in arte e mercato. Scrive per diverse testate di settore e dal 2008 conduce “Top Lot” su ClassCNBC (SKY 507). Su Spaghetti Boost racconterà il sistema dell'arte da una prospettiva non ortodossa, ospitando mostre e artisti che testimoniano la contemporaneità.
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